Inquieto

Sono inquieto
in questo giorno, intravedo
giardini per i morti
e tutti gli altri distratti
salutare le loro sorti

Sono turbato
In questo viaggio, squadrato
menzogne per gli stolti
urlando i loro torti
ai miei coglioni rotti

Sono un illuso
in questo posto corroso
di questo corso fumoso
per questo sogno maestoso.


Fade


Utopia - Il giorno in cui vietarono i divieti

I camioncini sgattaiolarono veloci, tra gli occhi incuriositi dei passanti. I cartelli erano tutti in piedi e appiccicati tra loro, come pendolari nel vagone della metro alle sei del pomeriggio. Le facce di metallo ballavano e si scontravano, ogni volta che il camioncino prendeva una buca. Qualche curioso li seguiva con la macchina, per capire dove diavolo stessero portando tutti quei divieti.
Cominciarono con i divieti. Li portarono via tutti. Li sradicarono dall'asfalto, li sganciarono dai semafori. Li cancellarono dall'asfalto foracchiato. In poche ore, la città era senza divieti. Poi proseguirono con gli obblighi e i sensi unici. Sequestrarono anche i segnali di pericolo. Dulcis in fundo, spensero i semafori. Nel giro di qualche giorno, la città si ritrovò senza restrizioni. Che tu avessi una macchina, un motorino o qualsiasi altra diavoleria con un motore sotto il culo, potevi andare dove ti pareva. Potevi imboccare strade contromano. Potevi andare a destra, a sinistra, dritto. Ovunque. Non c’erano più percorsi obbligati, o corsie preferenziali, o velocità da rispettare. Ognuno poteva fare il cazzo che voleva.
I primi giorni, la città fu pregna di euforia. Il peggio di noi era a pedale libero. Nessun confine, nessun limite. Il sogno di ogni frustrato. Il traffico era magicamente sparito. Se c’era un ostacolo o una macchina ferma, avevi molte più alternative. Più vie di fuga. E tutti aggiravano e fuggivano, arrivando a destinazione con largo anticipo. La terza notte dopo il Grande Ritiro, i writer fecero visita alla grande facciata del Comune. Il giorno dopo, passando davanti al Municipio, potevi leggere a caratteri cubitali: Benvenuti ad Utopia, la città dei sogni.
Poi cominciarono a contare i morti. I piccoli incidenti erano spariti. In compenso, le tragedie erano all'ordine del giorno. Non trovavi più le classiche due macchine scheggiate con le quattro frecce e gente in salute che urlava, sbracciava e si faceva salire la bile. Trovavi solo cumuli di rottami pieni di carne e imbrattati di sangue. Come se non bastasse, molti avevano confuso l’assenza di divieti stradali con la scomparsa di tutte le leggi. Ma non era così. L’omicidio era ancora illegale. E se montavi sul marciapiede con il BMW e ficcavi sotto una vecchia, quello era omicidio. Volontario e premeditato. Perché ogni volta che quella vecchia attraversava la strada, trascinandosi sulle strisce con la flemma di una tartaruga, tu smaniavi su quell'acceleratore e ti giuravi che prima o poi l’avresti uccisa.
Ben presto, tutti si accorsero di una cosa: non eravamo capaci di gestire la nostra libertà. A cosa serve essere liberi, se non capisci che anche la libertà è di tutti? E che quando arriva inevitabile il momento in cui le tue acque, espandendosi, toccano quelle di un altro, c’è bisogno di quel minimo di umanità per far sì che nessuno anneghi? Perché se pensi solamente alla tua, di libertà, arriva il giorno in cui farai male al tuo vicino. E quando il male tocca uno, tocca tutti. E’ così che funziona.
Non passò molto tempo prima che i comitati di quartiere si presentarono davanti al Comune, per chiedere a gran voce il ritorno dei cartelli. Dopo qualche giorno di protesta i divieti, gli obblighi e le restrizioni tornarono al loro posto. E quasi tutti furono contenti di vedere quei segnali. Perché finalmente era tornato qualcun’altro a dirgli cosa potevano e non potevano fare. Questa cosa li sollevava dal peso della responsabilità che li opprimeva, quando erano chiamati a riflettere con la loro testa.
La vita oggi è una scelta tra libertà e sicurezza.
Avere entrambe è pura Utopia.


Mister F





Fetore

Lunedì, signori.
Oggi, anche oggi, è lunedì.
Quando ero uno studente, jeans scambiati con la candeggina, camicia di flanella e capelli improbabili, il lunedì era il giorno più brutto della settimana. Si tornava a scuola, si vedevano di nuovo i compagni e i professori, ed io - asociale da competizione quale ero - avrei pagato di tasca mia per svegliarmi più tardi, starmene a letto, poi magari uscire a fare due passi. Andare al porto, tra le bestemmie e i commenti calcistici degli ormeggiatori. O magari sul treno, destinazione capolinea, a guardare i pendolari e i profili austeri di una città moderna suo malgrado, una città che sotto le costruzione contemporanee conserva un cuore antico, ancora pulsante anche se con qualche battito a vuoto. 
Anche le città hanno il soffio al cuore.

Non so cosa avete fatto nel week end. In fondo, manco me ne frega più di tanto. Siete andati in giro coi vostri cari? Buon per voi. Spero solo che non siate usciti di casa per sotterrarvi in quelle casse da morto collettive dei centri commerciali. Spero che siate andati a pranzo fuori, magari in un bel agriturismo di campagna, fuori città. 
Vi immagino così: un Supersantos preso dal portabagagli dell'auto, un lancio di esterno collo decisamente fuori misura, una corsa goffa e affaticata insieme ai vostri bimbi per agguantare il pallone prima che precipiti da una scarpata o si conficchi in una pozzanghera fangosa. Infine, il candido vociare di vostra moglie che vi guarda da lontano come il più coglione del creato e vi avvisa che il tavolo è pronto e potete andare a sedervi. A ordinare. A mangiare. A bere. A far finta di interessarvi delle chiacchiere dei commensali. A dire la vostra opinione su cose di cui non avete un'opinione. A chiedere il conto. A pagarlo. A salutare gli amici, se ci sono. A promettervi di rifarla un'altra volta, una bella scampagnata così. A entrare in auto. A mettere in moto e a tornare a casa.

Ecco. Messa così, sembra davvero un'esperienza poco invitante. Anzi, decisamente una giornata da non vivere.
Eppure.
Incredibile a dirsi, c'è molta più vita in una giornata del cazzo come quella che in tutte le stramaledettissime giornate che butterete nelle fosse comuni degli shopping center e degli outlet.
In quell'esterno collo sbagliato, in quella corsa goffa, nello sguardo rassegnato della vostra compagna c'è l'Umanità, con tutte le sue schifezze, le sue bassezze, le sue noie e le sue routine. Ma c'è, cazzo.
Io ne sento il fetore.

Nei centri commerciali, invece, io non sento niente.
Nemmeno il fetore.


Jack Writhe 


Wilma

In questi giorni, e in queste ore, si è fatto un gran parlare dell congresso mondiale delle famiglie, che si svolgerà a Verona fino a domenica. A leggere e a sentire cosa pensano i partecipanti a questo congresso dei gay, dell'interruzione di maternità, delle famiglie "arcobaleno", del fine vita, in molti hanno avuto l'impressione che a parlare fossero uomini del medioevo catapultati nel Duemila. Di più, uomini di Neanderthal che hanno fatto un enorme balzo interdimensionale: dall'età della pietra all'età della merda.

No.
Non si tratta di un insieme di Fred Flintstone che urlano "Wilmaaaa!" alle loro compagne. Non credo che siano tutti così. Anzi, sono convinto che molti di loro non siano affatto così. Ma peggio. Spaventosamente peggio.
Almeno Fred viveva nel Neolitico, metteva in marcia la sua auto muovendo i piedi e si vestiva con le pelli rabberciate di qualche bestia preistorica. Questi invece vivono oggi, guidano auto con tutti i comfort e in genere vestono abiti costosi. Eleganti no, perché l'eleganza è un'altra cosa e quasi mai è direttamente proporzionale alle cifre sul cartellino del negozio.
Almeno Fred era un operaio che si spaccava la schiena nella cava e si concedeva solo lo svago di una partita di bowling, di tanto in tanto. Questi invece sono spesso colletti bianchi e sepolcri imbiancati, talvolta stanno comodamente seduti dietro scrivanie in caldi uffici dell'industrioso Occidente e si concedono svaghi d'ogni tipo: da quelli più istituzionali, come le messe vespertine o domenicali, a quelli per loro più inconfessabili e peccaminosi, come le droghe, il gioco, le amanti.

E soprattutto, Fred non rompeva i coglioni a nessuno. Non voleva imporre la sua visione del mondo a Bernie o ad altri. Si faceva i cazzi suoi e se ne stava con le sue debolezze a vedere la tv o a giocare coi dinosauri. 
Mica come questi cagacazzi qua. 

Jack Writhe


Again

Ciao, terrestri.
E' un bel po' che non ci sentiamo. E' passato poco più di un anno dall'ultima volta. Vi sono mancato? Manco per il cazzo, lo so. Vi capisco. Non ci rimango male, tranquilli. Manco io sentirei la mia mancanza.
Mi sono preso una specie di anno sabbatico. Me ne sono stato sul mio camion, in giro per i cazzi miei. Ho ascoltato Radio Sabotag, ho letto i suoi post, e ho visto questa cloaca di mondo tentare in ogni modo di andare a puttane.
Pensavo di non tornare più, sapete? Alla fin fine - mi dicevo - il mondo è diventato uno schifo di posto, pieno di gente incazzata e invidiosa, pronta a dare addosso a chiunque anche per i motivi più futili. Mese dopo mese, vi vedevo festeggiare perché i disperati venivano lasciati a bordo di navi nel Mediterraneo o perché i bambini messicani venivano separati dai loro genitori. Vi ho visto votare Salvini, Orban, perfino quella latrina fascista di Bolsonaro. Vi ho visto augurare la morte ai gay, legittimare femminicidi e violenze d'ogni genere. Vi ho visto tifare per Israele che bombardava i palestinesi. Vi ho visto diventare esperti immunologi, terrapiattisti, difensori della famiglia tradizionale.
In poche parole, vi ho visto fare pena. Voglio essere sincero: se avessi beccato sulla mia strada uno di voi e avessi avuto la certezza di non essere visto da qualche testimone oculare, lo avrei buttato sotto col mio camion. Fanculo.

Poi però mi avete sorpreso. Alcuni di voi - prima pochi, poi sempre di più - hanno cominciato a reagire. Piccole reazioni, minuscole indignazioni, insignificanti incazzature. Eppure ho visto una inversione di tendenza. Adesso c'è qualcuno di voi che manifesta una flebile volontà di tirarsi fuori dalla merda razzista, sessista, omofoba e violenta che pare essere maggioranza. Alla fine, forse, non sono maggioranza, ma soltanto più rumorosi. C'è da capirli: sono dei repressi di merda, ridotti da decenni a stare nelle fogne senza possibilità di poter scorreggiare i loro pensieri. Ora ci sono i social e c'è l'impunità della rete, quindi possono aprire tutti gli account farlocchi che vogliono e vomitare il loro odio senza rischiare (quasi) nulla.

Se però capita di trovarseli davanti, in merda e ossa, uno contro uno, tornano ad abbassare lo sguardo. Perché quando non hanno il numero dalla loro parte, quando non hanno il branco che li spalleggia, tornano pecore. Anzi, merde di pecore. Li vedi con i loro tombini sulle spalle, pronti a tornare nelle fogne. E ti fanno quasi pena.
Ma chi guida lo sa: i tombini scoperchiati sono pericolosi. Se ci vai con le ruote dentro, spacchi tutto. 

Allora ho deciso di tornare. Di darvi una mano a richiudere i tombini. Lo faccio per me, per voi, e per il mio tir.
On the road again.


Jack Writhe




L'orso e la vespa


Jack Writhe, pantaloncini rossi, una tonnellata di carne, ossa e grinta (nel suo paese di origine, dove il vulcano sbuffa e tiene alla larga i pupazzi del Regime, la chiamano “Cazzimma”). Mister F, sessanta chili di scarsi appesi a quattro ossa. Però dalla sua ha un veleno nel sangue che rende i suoi pugni punture implacabili di vespa. Costretto da un ricatto morale chiamato amicizia, Fade fa da arbitro. Mister F gira intorno con un ritmo spezzanervi, Jack attende il momento giusto. Perché la vita è così, cerca di sfiancarti. Ti gira in tondo chiacchierando, tanto rumore nelle orecchie, un mare di nulla. << Sei pronto ad andare giù, Big Jack? Più grosso sei, più rumore fai quando cadi. >> << Perché non provi a tirare qualcosa, invece di sprecare il fiato? >> Neanche il tempo di finire la frase e Mister F si fa sotto. Le mani sono aghi che si infilano ovunque, veloci e precisi. Jack non riesce a chiudere i buchi nella guardia ma incassa alla grande, non da’ segni di cedimento. Mister F continua a girare con un ghigno da maniaco stampato sul volto. Jack è impassibile. << Ti muovi troppo, piccoletto. La vita ormai è un Teatro con un palco troppo grande, se giri troppo poi ti perdi e diventi anonimo. Come gli altri. >> << Eccolo, l’uomo di mondo! Allora è meglio attendere fermi? La vita corre, Jack. Non hai tempo da perdere. >> Jack ci prova, tre colpi pesanti. Mister F schiva i diretti e riesce a coprire bene il montante. Il colpo però è una sassata e se lo sente vibrare dal braccio alle costole, fino al collo. Il sorriso si piega un attimo, poi torna più sadico di prima. << Bravo Big Jack, così mi piaci! Non permettere agli altri di dettare i tempi! >> <> << E gli unici a divertirsi sarebbero i papponi seduti nelle sedie VIP. Quelli che le mani non se le sporcano mai. >> Due sguardi complici e via con la scazzottata. Mister F punge rapido e sfianca Jack sui fianchi tondi. Writhe tira un paio di cannonate per tenerlo a bada e nel frattempo cerca la testa. Basta un colpo fatto bene e buonanotte Mister F. << Sei una roccia, Big Jack! Quanto mi diverto con te! Sei il boss finale del mio videogioco! >> << Mi piace rincorrerti Mister F. Mi aiuti a focalizzare. In questa vita fatta di cose e persone inutili, bisogna mettere a fuoco quel poco che conta. E prenderselo. >> Mister F ne piazza altri cinque o sei. Jack barcolla ma lo sguardo non cambia. Fade nel frattempo si scaccola. << Arriva la Vespa, Big Jack! Arriva il quotidiano che ti sfianca e ti logora! Arriva il dolore della mediocrità! Arrivo, CAPO! >> Una scarica da mal di testa, Jack sembra crollare. Ma l’hanno chiamato CAPO. E a lui non piace essere chiamato CAPO. Non gli piace proprio per nulla . Concentra la forza, la fatica, l’amore e la rabbia di una vita passata a combattere e tira il gancio ​ destro nel momento giusto. L’impatto è tremendo, Fade si toglie le dita dal naso e alza la testa di scatto. Mister F vola come una palla da tennis e si schianta sui bidoni di metallo. Fade tira un sospiro di sollievo e alza il braccio: << Vince Jack. >> Jack recupera il fiato. Rantola come un cane randagio dopo una corsa di trenta isolati. Poi le risate si fanno fragorose. Bell’incontro. Arriva Chicana. Si guarda intorno. A sinistra, Jack Writhe ricoperto di sudore e lividi, la faccia gonfia e il respiro di un orso. A destra, il braccio di Mister F fa capolino tra i bidoni rovesciati e saluta. Davanti a lei, Fade sdraiato su una brandina che si gratta in mezzo alle gambe. << Barbari. >> E se ne va.

Mister F




Dodici Corde


Bisogna vivere la vita a dodici corde. Sì, sei corde ti danno quella bella sensazione sui polpastrelli. All’inizio te li ritrovi neri e sanno di metallo, poi ti abitui e cominci a prenderci gusto. Puoi metterci gli accordi o correre per le scale. Puoi scegliere il virtuosismo o battere i palmi sulla cassa armonica e far battere le mani a chi ti è accanto. Insomma, tutto molto bello. Ma arriva il momento in cui devi fare il passo in più. Le dodici corde ti sfidano. Ridono, disposte a coppie, si parlano all’orecchio e ti guardano di traverso. Secondo me non ce la fa. Sulle dodici corde devi spingere di più. Devi essere convinto. Devi avere la potenza e il controllo, devi digrignare i denti e tendere i muscoli se vuoi far parlare dodici corde. Ognuno di noi ha le sue dodici corde da trovare. Cercatele e una volta che le avete tra le mani, dateci sotto. Non vi accontentate. Qualsiasi strada abbiate scelto nella vita, avrete la possibilità di percorrerla a sei o a dodici corde. La sei corde è una ragazza. E’ giovane, spigliata, romantica e conosce qualche trucchetto per farti venire forte. Ma la dodici corde è possente. E’ formosa, ha le spalle larghe. E vuole di più. Ti vuole fino all’alba. La sei corde è qualche cicchetto di troppo. Due risate, forse un pianto. Poi tiri giù mezzo litro d’acqua e sei di nuovo lucido. La dodici corde ti stende. E’ una botta di assenzio che ti brucia tutto, ti fa un nodo al duodeno e il giorno dopo ricordi tutto, ma sembrano i ricordi di un’altra persona. Vivere a sei corde lo sanno fare tutti. Non ci vuole molto. Certo, c’è chi addirittura rimane muto e muore in silenzio, senza lasciare tracce. Ma questo non deve giustificarci. Non può essere il pretesto per fermarsi a metà strada. Andate fino in fondo. E arrivati in fondo, scavate. Andate a vedere cosa c’è dall’altra parte. Non copiate il solito riff, non suonate con la moneta da un penny perché lo fa quello famoso. Non fatevi crescere i capelli per coprire il viso durante gli assoli. Piuttosto fatevi aprire la carne dei polpastrelli. Ascoltate il suono doppio che vi passa tra le mani. Mordete quel legno, fatevi graffiare dalle corde, sanguinateci su quella tastiera. Vivete. Andate oltre. Fatevi sconvolgere. Trovate le vostre dodici corde.

Mister F


Ben visti dal malocchio


Io e te non ci vedremo mai più. Il fato mi ha concesso una sola opportunità ma l’alcol ha reso tutto più veloce. Mi sei scivolata tra le dita e ora il tuo volto è già un’ombra. L’occasione mi mostra da lontano il dito medio e la seconda chance non è pervenuta. Le stelle sono disallineate, si odiano tra loro. Nato sotto il segno del vuoto, sono destinato a sprecare ogni tiro dal dischetto. Ci provo a forzare gli eventi, a cercare le possibilità. Ma ci sono forze più grandi di te e di me. Gli spiriti possono deformare i cammini. I nostri sono paralleli, non ci sarà nessun incrocio. Ma smettila. Non dipende da te. Dipende da me. Credi basti la tua volontà a riportarci faccia a faccia? No, fanciulla. L’universo si sfrega le mani e combina le molecole per far sì che i desideri vengano soppressi dalle circostanze sfortunate. Sì, ho detto Sfortuna. La sorella nera della dea bendata, con occhi di lince e la lingua biforcuta. Non dovresti scherzare su queste cose. Un po’ perché non ci credo, un po’ perché ci credo. Brava donna, credici! Prega insieme a me gli dei pagani, danzando intorno ai loro feticci. Passiamo insieme sotto le scale calpestando mattonelle rotte. Lanciamo specchi contro i gatti neri e rovesciamo il sale a tavola, sperando che nella loro ira essi decidano di rompere le regole che loro stessi hanno creato. Lasciamo che la superstizione superi il desiderio. Offriamoci come bambole voodoo e lanciamo anatemi contro le costellazioni dei nostri segni zodiacali. Facendo così, forse il corso degli eventi verrà riscritto e finalmente potrò stritolarti in un nuovo abbraccio. Io, povero mentecatto che rimane lucido solo nei momenti più inutili.

Mister F


Alla ricerca

Oggi è passato un anno dal tuo ultimo respiro.
Non scrivo per rimanere appiccicato alle vecchie lacrime, che si sono fatte resina e cercano di tenermi immobile. No. Sto andando avanti.
Lentamente la nebbia violacea della rabbia si sta diradando. Mi rendo conto della sua inutilità e vado avanti, facendo leva su quello che è rimasto. Sull’amore. Quel tuo incomprensibile, scellerato amore.
Certo, le domande tornano come la seconda onda dopo la risacca. E la terza, la quarta, la seicentomiliardesima. Perché la vita qua è fatta di domande e chissà se dall’altra parte ti danno le risposte.
Io ti cerco. Nel mio quotidiano, anche ora che spingo questi tasti e sono loro a portarmi, sono le parole che si formano da sole. Io sto solo a guardarle.
Così come rimango a fissare la tua lapide senza pensare. Arrivo, cambio i fiori, lavo il marmo e penso che forse un po’ di sassolini intorno ci stanno bene per fermare quelle erbacce che continuano a crescere.
Ma nel frattempo, tu dove sei? Il tuo corpo è finito sotto, come Atlantide, ma come Atlantide ne ha conservato la magnificenza. Quindi sei rimasta lì, o sei volata via?
Se mi sdraiassi sulla terra, tra i sassi, se potessi sciogliermi come acqua e penetrare nel terreno, cosa vedrei di te? Hai già lasciato i tuoi doni a questa terra, o c’è ancora un po’ di energia qua sotto?
Oppure attraversi le galassie e ne scegli una più comoda per stabilirti? Magari una fresca, che il caldo proprio non lo sopportavi.
E quando l’avrai trovata, potrò rintracciarti quando ti raggiungerò? Mi manderai la tua posizione, tu che non riuscivi a farlo con il cellulare, un po’ perché non ci vedevi bene e un po’ perché non ti andava di imparare?
Continuo a chiedermi ogni tanto: dove sei? C’è un po’ di te nel santino plastificato in custodia nel mio portafogli? C’è un po’ di te nell’album delle foto? Hai lasciato qualche mollica tipo Pollicino?
Spero di sì, altrimenti come ti trovo?
Ogni tanto i mostri si ribellano dentro di me e fanno baccano. Sei tu che li prendi a sculacciate, quando li sento che si calmano? Sei tu che sei arrivata nella stanza del mio Inquilino e l’hai messa in ordine e hai annientato ogni acaro della polvere perché se sono allergico io, probabilmente lo è anche l’Inquilino?
Continuo a cercarti e corro così veloce che rischio di bruciarmi a contatto con l’atmosfera e svanire anch’io.  Ti cerco così forte che a volte metto in dubbio che possa essere esistito un essere come te. Così diverso da tutto. Così introvabile. Mi viene il dubbio che io sia nato in un laboratorio e tu sia solo nella mia immaginazione. Un ricordo impiantato per dare un senso alla mia esistenza.
Forse l’unico modo per trovarti davvero è fermarsi. Respirare.
C’è un legame che può portare dall’altra parte, andata e ritorno. E così posso vederti. Tu, grande sabotatrice, tra le più testarde. Il mondo in una direzione e tu, ostinata e contraria. Ad urlare, sbracciare e continuare a ripetere: “Io so’ fatta così”. Tu che sei tornata, dopo la dipartita, e hai incendiato tutto.
Tu, resistente ai regimi e allergica all’indifferenza. Tu, a rompere gli schemi ed esasperare coloro che cercano la normalità.
Ed io, che ho cercato di cancellarti in vita e allora tu hai deciso di lasciar andare il corpo, così da tornare ancora più forte e sabotare tutti gli schemi e le previsioni che mi ero costruito.
Tu, con il tuo sacrificio, ad insegnarmi il sabotaggio e l’amore.
Tu, che come le torri di Atlantide ora squarci il silenzio dell’abisso.
Tu, che non hai bisogno di essere cercata.
Perché sei ovunque.

Mister F



Cenere e sabbia

I gioielli della zingara mi accecano di riflessi, mentre la clessidra sibila frettolosa.
La zingara prende la prima carta: << L’arrivista >>.
I suoi occhi mi fissano e cambiano colore. La guardo, capisco. Capisco di desiderare la vetta con troppa smania. Una corsa continua verso un miraggio che non ho la forza di distinguere dal reale. Ogni centimetro non percorso, un boccone di me dato in pasto all’ansia.
<< Vuoi bruciarla? >> chiede la zingara. Rispondo di sì. La fiamma divora la carta e la trasforma in cenere.
Nel frattempo, la clessidra continua a scorrere.
La zingara prende la seconda carta: << L’idrofobo >>.
Sento l’intestino rimpicciolirsi. Si contrae e si porta appresso il bacino e i muscoli della schiena. Vorrei rovesciare il tavolo, le carte, la sfera di cristallo e strappare a morsi i tendaggi che ho per tetto. Ma non cambierebbe nulla. Mi ritroverei rinsecchito di rabbia, pronto a spezzarmi alla prima folata di vento.
<< Vuoi bruciarla? >> chiede la zingara. Rispondo di sì. La fiamma divora la carta e la trasforma in cenere.
Nel frattempo, la clessidra continua a sussurrare.
La zingara prende la seconda carta: << Il vendicatore >>.
La vendetta è un piatto che va servito freddo, ma poi chi se lo mangia? E’ così freddo che non lo vuole neanche il cane. Non mi ricordo neanche perché ho iniziato ad odiare. Finirò sciolto nella mia stessa bile, scomparendo in uno sbuffo di fumo.
<< Vuoi bruciarla? >> chiede la zingara. Rispondo di sì. La fiamma divora la carta e la trasforma in cenere.
Nel frattempo, la clessidra è terminata.
Rimangono cenere e sabbia di una vita sprecata. Resto in silenzio e la zingara sorride. Il dente d’oro mi acceca insieme ai gioielli e ora vedo solo rosso. Ho sfidato me stesso e ho perso.
La guerra va affrontata con il sorriso sulle labbra e la consapevolezza sulle spalle. A volte un respiro in più può salvarci l’anima. Di tutti i tesori che possiamo avere, il tempo è l’unico che non ammette errori. Usalo male e tu sarai la tua stessa rovina.
Un corpo troppo veloce a contatto con l’atmosfera, brucia ed evapora. Non ne rimane neanche il ricordo.
Non bruciarti. Piuttosto, brucia l’ostacolo e respirane la cenere, prima di proseguire.
La zingara ha parlato. Fossi in te, non le riderei in faccia.


Mister F




Quasi sorelle

Abbiamo rischiato di essere sorelle, non so se lo sai. Non avrei mai accettato una sorella con i capelli rossi, è giusto che tu lo sappia. Tuo padre mi piaceva, voglio dire, era un figo: capelli lunghi, orecchino. A mia madre sono sempre piaciuti i fighi, quelli hard rock. Come tuo padre. Sentivo sempre parlare di te, mi sentivo come se da un momento all'altro fossi dovuta entrare a far parte della mia vita. Era un tormento. Non mi andava per niente di diventare tua sorella visto che avevi quei capelli rossi. E, se non lo sai, a tuo padre già piacevo più di te: mi cantava sempre i Litfiba, e ci facevamo grandi risate quando era con noi. Lui e mia madre erano felici, e io ero felice perché mia madre rideva. Mia madre rideva sempre, anche quando era triste. Soprattutto quando era triste. Però sapevo che con tuo padre rideva davvero, non per nascondersi. Anche tuo padre aveva i capelli rossi, ma non era per quello che le piaceva. Le piaceva perché la faceva sentire viva. Ora che ho l'età di mia madre lo so, perché mi piace lo stesso tipo di uomo. Non ci si crede di quanto la abbia odiata e di quante cose brutte abbia cercato di farle per poi diventare esattamente come lei. Ironia della sorte. Ad un certo punto, all'improvviso, non ho più sentito parlare di te e ti ho dimenticata. L'odiata sorella con i capelli rossi: scomparsa. Non ero felice né triste, sei solo stata portata via dal flusso del tempo. Come tuo padre. Soppiantato da mio, di padre. Che in realtà era già lì quando è arrivato il tuo. Ma no, non ero gelosa perché io e mia madre abbiamo questa cosa che ci è sempre piaciuto essere felici, molto più che essere corrette. Perciò di ascoltare il rock con tuo padre mi stava bene e non mi sembrava di fare un torto al mio. Eri tu che non mi piacevi, con i capelli rossi e le lentiggini. Non c'era posto per un'altra bambina nella mia infanzia così affollata. Ora hai la mia età, o qualcosa di simile. E tuo padre sarà un inutile settantenne, come è mia madre. Siamo due donne figlie uniche che stavano per diventare sorelle, e una delle due forse nemmeno lo sa.

Chicana


Hamdulillah

Non mi ci sono mai sentita. Anzi, fino ad una certa età non ci ho mai pensato. A casa mia non se ne parlava e quindi a posto così. Avevo già abbastanza problemi: non piacevo a nessuno e mi tiravano le pietre. Sei diversa, dicevano. Anche se io mi vedevo uguale a loro. Siamo nati tutti a Roma, ho due gambe due mani due occhi, come voi. Non c'è stato verso, non li ho mai convinti. Poi una sera che me ne stavo a scrivere sui miei inutili quaderni, mia nonna entra con i suoi occhioni azzurri e mi racconta la storia di suo marito. Chi cazzo se l'era mai immaginata una storia come quella! Ecco a cosa ho pensato mentre salivo sull'aereo per Beirut. Ho pensato alla storia che mi ha raccontato mia nonna. Perché in fondo anche ora, che sono passati tanti anni, non mi ci sento. È stato solo quando sono atterrata, quando i soldati al check in mi hanno controllato i documenti; è stata la sera in cui mi hanno fatto mettere l'hijab che per un attimo, anche se poco, ho cominciato a sentirmici. Il Giornalista diceva You're so arabic. Mi piacciono gli uomini che parlano tante lingue quindi in mezzo secondo ero innamorata di lui per sempre - anche se adesso mi è già passata. Quando mi ha chiesto se fossi dalla parte di Hezbollah ho detto Certo, perché nessuna persona sana di mente potrebbe trovare qualcosa da eccepire. Shhh non dirlo ad alta voce, dicono i libanesi ma io ho l'arroganza delle donne occidentali e mi sento intoccabile, anche quando i soldati si lucidano il ferro (diciamo così). Questo vuol dire che non mi ci sento o avrei paura anche io. Invece vaffanculo, sono bianca, passaporto italiano - non mi faranno niente. Non ho mai davvero paura di morire, e a volte questo è il tuo peggior difetto, dice il Giornalista con cui per due ore siamo stati innamorati per sempre. Sei una coatta dell'Eur, dice perché è di Roma anche lui. Ma io non sono mai stata una coatta, tantomeno dell'Eur. Quelli che mi tiravano le pietre lo sanno bene, chiedete a loro. A vedermi così, con questo hijab in testa non si direbbe. Lebanon?, chiedono i libanesi per sapere se sono una di loro ma no, mi dispiace, non sono nemmeno una di voi. E allora perché Hezbollah? Perché sta dalla parte del popolo, perché lotta contro l'occidentalizzazione del Medioriente. Resistenza! Ah, e già che ci siete mettetevela nel culo la democrazia. Qui tutto profuma come ci si aspetti che profumi Beirut. Ci sono le strade e i palazzi un po' così. Così come? Così... come nell'Italia di Anna Magnani. Non siamo tanto diversi. Anzi, qui non sono diversa nemmeno io. Potrei addirittura dire che sono simile. Ma no, non sono libanese. Sono italiana - 100% italiana di Adalia. 100% Ayyıldiz ma tricolore. Fratelli d'Italia... com'era? Se dovessi scegliere tra musulmana e cristiana resto atea, anche se l'hijab mi sta un amore - due giri ed è subito terrorista. Il caldo è umido, i vestiti mi si incollano addosso, qui si fanno tutti le canne e scopano tra loro, maschi femmine, meno male che non ci sono i cani. You're not pansexual? Chi non lo è di questi tempi. Ma devo prima innamorarmi moltissimo, fosse anche per mezz'ora. I'm... Come diceva quel dottore? I'm promiscuous ma con mucho amor. Per una cosa come questa in Libano ti appendono al cappio, cerchiamo di non essere troppo internazionali almeno per strada. Che esagerazione, ormai dal 2014 non uccidono più neanche i collaborazionisti di Israele, al massimo vai in galera. La solita italiana bianca arrogante. Che buono il Libano, pieno di strade dove non c'è proprio nessuno che possa farti la morale. Forse prima che Israele si mangiasse la Palestina, magari quando i sunniti di Hussein avevano il controllo dell'Iraq, quando la Mezzaluna fertile non aveva conosciuto la piaga della liberté egalité fraternité. Ma adesso, strade vuote, angoli dimenticati, posti dove si può andare quando ci si vuole perdere. Poi il centro ok, tutti sti turisti che vengono a vedere quanto è esotico essere messi in ginocchio dal resto del mondo.

Chicana

Feedback

Un giorno mi dissero: << ma cos’hai in quella testa? >> E mi resi conto che non lo sapevo bene neanche io.
Allora decisi di entrare.
Chiusi gli occhi e di fronte a me c’era una porta di legno piena di graffi. Era socchiusa, quasi un invito ad entrare.
Mossi i primi passi ma sentii subito gli scricchiolii. Il pavimento era di vetro. Allora avanzai in punta di piedi, le dita erano gocce di pioggia sui tasti di un Hammond. Piccole lucciole mi saettavano intorno, confondendomi con il loro scampanellio. Dispettosi, sogghignanti, volavano veloci e non c’era verso di prenderli.
Le pareti di pietra erano immense e umide, un manto di condensa spalmato sopra. La luce entrava da piccole fessure e cambiava direzione per non dare punti di riferimento. Poi simultaneamente le vidi, dita di luce puntate tutte su di me. L’intruso era stato riconosciuto.
Una voce sibilava alle mie spalle, invitandomi a sottopormi a giudizio. Davanti a me un solco sbilenco nel vetro tracciava un confine. Ai lati, migliaia di corpi nudi in attesa di verdetto.
<< Cosa aspetti di vedere? >> chiese la voce.
<< Bene e male >> risposi.
Un urlo entrò nelle orecchie come una lama. L’uomo cieco era arrivato. La testa era completamente fasciata di bianco e lì dove avrebbero dovuto essere gli occhi c’era una scia di sangue rosso, così scuro da apparire nero a volte. Aveva in mano una pistola e sparava a caso. Le pallottole trapassavano corpi a destra e a sinistra del confine. L’uomo cieco sparava a caso e buoni e cattivi morivano insieme. Le pallottole scivolavano sulla condensa o si conficcavano nella pietra. L’uomo cieco urlava e non la smetteva di sparare. Aveva munizioni infinite e un dito instancabile.
<< Che tu sia stato buono o cattivo, credo ti convenga abbassare la testa >> disse la voce.
I proiettili fischiavano come falchi in picchiata. Ero accucciato a terra, con le mani sulle orecchie e non capivo. Non capivo il perché. Cercavo una risposta, ma non la trovavo.
Allora arrivarono i lamenti. I corpi erano trafitti e le anime abbandonali gridavano vendetta, ululavano verso coni di luce argentea.  La luna cercava di entrare ma non aveva il permesso.
La temperatura si alzò all’improvviso e ogni lamento divenne un grido. La rabbia esplose  e lasciò crepe sulle pareti. Il vetro andrò in frantumi e rimanemmo sospesi in un vento di ira. Il ciclone si era formato e faceva da veicolo per le grida disperate. Il cielo si andava smontando e l’Inferno cercava di sprofondare ancora più giù, pur di non sentire tutto quel baccano. Le pallottole vagavano e facevano filotti di buoni e cattivi. Onesti, imbroglioni, gelosi, altruisti, empatici e psicopatici accumunati dalla stessa forma di carne che veniva traforata dal piombo.
La conta dei morti saliva e così quella delle anime ululanti e alla fine rimasi solo contro un esercito di spiriti. Ognuno di loro aveva cercato la sua giustizia e ognuno di loro aveva fallito.
Rimanevo solo io adesso. Io che pensavo ci fosse giusto e sbagliato, bene e male. Io che avevo commesso il più grande dei peccati, ora ero la vittima sacrificale del grande circo dell’umanità.
L’uomo ceco scappò nel buio, urlando e sparando.
Il giudizio universale era iniziato e i tamburi di ingresso battevano come dannati. I miei timpani si aprirono come petunie e ora era il giunto del confronto. Finalmente capii chi avevo di fronte. Tutte le versioni possibili di me. Le infinite combinazioni si erano radunate e sacrificate per l’uomo cieco, cavaliere della casualità. Le cose posso andare in un solo modo, le alternative soccombono. Il caso uccide tutte la chance, meno una. Ma lì dentro, in quella grotta ora squarciata e illuminata da una luna spietata, si contorcevano tutte le mie versioni alternative nate dai pensieri inutili del quotidiano. Erano frutti di quel cancro chiamato preoccupazione. La mia mente intrappolata in un loop di pensieri aveva generato ogni possibile singolarità. Ed ora tutte erano pronte ad attraversarmi. Sentii venti gelidi e bollenti alternarsi, al passaggio delle anime ingorde. Le voci erano milioni e parlavano senza sosta.
Ogni diramazione del destino generata da ogni scelta della mia vita mi stava trapassando da parte a parte. Era un mormorio inarrestabile e giunto nell’apice del suo piacere sadico si permise di aggiungere una punta di compassione.

Povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me povero me

La rabbia, motore di ogni sentore umano, vera forza origine dell’universo, accelerava il ritmo e ogni spirito era una freccia infallibile. Non era dolore ciò che provavo, ma una fitta di impotenza ad ogni passaggio. Più veloce. Più veloce. Sempre più veloce.

Povero povero povero povero povero povero povero lui
Povero povero povero povero povero povero povero lui
Povero povero povero povero povero povero povero lui
Povero povero povero povero povero povero povero lui
Povero povero povero povero povero povero povero lui
Povero povero povero povero povero povero povero lui

Silenzio

Gocce di mercurio mi cadevano in testa, nel silenzio assordante che lascia quel biiiiiiiip inconfondibile quando esci da un delirio di decibel. Tornarono le lucciole – dove erano finite – ma solo per ridere di me. I risolini divennero ghigni, poi starnazzi e le risate di corpo ora erano grida sadiche e tornò la voce del cieco – solo la voce – a sconquassare le pareti di pietra che crollavano sfiorandomi le braccia. Tutto era pronto al collasso sotto le grida della rabbia universale che nasce dalla ricerca di un senso che non c’è mai stato e mai ci sarà.
Lo spazio si distorse per un attimo e subito dopo sentii un branco di cavalli avvicinarsi al galoppo. Quando la luna decise di mostrarli, vidi stalloni giganti con gli occhi rossi, il pelo come petrolio e la bava tra i denti. Avevano zoccoli grossi come macigni e al loro passaggio la demolizione fu totale.

Mi travolsero.

Tutto esplose in un trionfo di sfoghi e quando il tocco finale della campana riportò tutto alla calma, mi resi conto che intorno a me non c’era più nulla, se non un senso di deliziosa e immotivata pace.

Qualche giorno dopo mi dissero: << ma cos’hai in quella testa? >>
Ci pensai un attimo, e sorrisi.

Mister F



Sempre di guardia

A Gaza i soldati israeliani hanno ricevuto l'ordine di gambizzare i giornalisti (sparargli ok ma alle gambe, senza ucciderli... sai, per i diritti umani sennò poi l'opinione pubblica rompe il cazzo). Hanno fatto così ma in 3 sono morti lo stesso. 600 feriti. Che sapevano che sarebbero morti e feriti, perché erano stati avvisati, Se il venerdì fino al giorno del Nekba farete questa marcia verrete uccisi e feriti. Ma loro sono andati lo stesso, anche le donne e i bambini. Cazzi loro. Poi non vengano a piangere in tv. Ah, già, da loro le tv nn ci vanno. Piangono solo gli ebrei in tv. Ancora per la Shoah? Avoja. Comunque poi hanno tolto l'elettricità e rallentato internet così nemmeno i messaggi a noi, ai loro amici, potevano mandare. Non potevano dirci Abbiamo paura. E nemmeno Ci stanno sterminando. Non potevano dire Sionisti di merda perché è antisemitismo e non potevano dire che quella è casa loro perché c'è subito qualche professore buonista che dalla scrivania sentenzia sul bene e sul male, mentre loro piangono e gli scoppiano le tibie e continuano a svenire perché i gas lanciati sulla folla non sono proprio del tutto quelli legali che si dovrebbero usare in questi casi. Niente, non si può dire. What happens in Gaza, stays in Gaza... non era così? Cancelliamo i palestinesi dalla faccia della terra, facciamo che sono solo un brutto sogno. Mentre voi dormite, io sto sveglia per ricordarli. E così farete voi quando dormirò io. Facciamo in modo che qualcuno resti sempre di guardia per evitare che al risveglio ci abbiano tolto tutto, anche la voglia di vivere.

Chicana


Carta canta

Ehi, mi senti? Sono qui. Quaggiù, nel tuo portafoglio. Pensavi non potessi parlare? Invece parlo, sei stato tu a darmi potere di parola. In realtà, mi hai dato tutti i poteri. Il giorno in cui mi hai creato, il tuo ridicolo inconscio già accendeva in te il desiderio di farti dominare. Davanti a te la realtà era troppo grande e incerta e ti serviva qualcosa a cui aggrapparti. Qualcosa in cui rifugiarti, piccolo e nudo com’eri. Hai inventato gli dei, ma quelli sono impalpabili. Non puoi vederli, non puoi toccarli. Non ti bastava alzare gli occhi al cielo per chiedere a qualcun altro il da farsi. Non ti bastava unire le mani in preghiera per scaricare le tue responsabilità verso qualcosa di più potente, di inappellabile. Allora hai creato me, che sono concreto. Che posso essere toccato, accarezzo, baciato. Mi hai dato il potere di poterti dare qualsiasi cosa, purché tu faccia di tutto per avere me. E’ buffo. E’ spassoso.
Non si poteva andare avanti con il baratto, serviva un valore di scambio comune per tutti.
Hai ragione, bravo. Hai studiato economia. Bravissimo. Hai capito che tutto verte su di me. Grazie a me, la tua vita oggi può avere un senso. Con me puoi comprare da mangiare, da bere. Con me puoi comprare utensili e accessori per vivere più comodo. Con me puoi comprare un tetto per ripararti dal freddo, dalle intemperie e da quelli come te. Con me puoi avere un motore sotto il culo che ti spinga a tutta velocità dalla casa al lavoro, dal lavoro alla casa. Con me puoi andare in giro, puoi avere un’identità. Con me puoi anche cambiarla l’identità, se vuoi. Con me puoi comprare il rispetto, la dignità, l’onore. Con me puoi comprare la volontà degli altri. Con me puoi comprare il corpo di un’altra persona. Con me puoi godere. Con me puoi comprare i sogni, la libertà, l’amore. Con me puoi avere tutto. Ma prima devi avermi. E allora corri, sgobba, sbrigati, testa bassa e produci.
Produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci produci
Più produci, più mi avrai. Più mi avrai, più a lungo potrai vivere per produrre. Perché con me puoi comprare quella salute che perdi per avermi. E’ buffo. E’ spassoso.
Non puoi più farne a meno. Io decido le sorti del mondo, chi sta sopra e chi sta sotto, chi vive e chi muore. Io parlo ai popoli, alle masse, raccolgo tutti i loro sogni in uno. Io sono il sogno, l’unica via. Avevi creato tanti dei, poi per pigrizia li hai riuniti tutti in me. Non avrai altro dio all’infuori di me. Sono uno, trino e quat-trino. Mistero della fede. Per me lavorerai, sputerai sangue, urlerai, lotterai, ucciderai.
Tu mi hai dato la vita e la parola. Grazie a te, oggi posso toglierti entrambe.
Quindi testa bassa e produci.
P r o d u c i .

Mister F



Fine turno

Notte di lucciole e cingiali
Alla stazione
puzzo di vomito
gasolio
e suoni di sirene.

Sono ormai schiacciato
Dal torpore
Fermo, indomito
Da solo
E muoio in belvedere.

Aspiro a denti stretti
Fumo nevrotico alla gola
Ascolto forti i loro rutti
Nel petto il sangue mi consola

Rompono le mie ossa
Come bottiglie di vetro
C’è solo rabbia, senza fossa
Per questo povero e inutile negro.

Fade




Serie e composte riflessioni sul momento del trapasso

Ho sempre immaginato come me ne sarei andato. Come sarebbe stato il mio estremo saluto a questa cazzo di sfera ricoperta di merda fumante che chiamiamo mondo. Insomma, la mia uscita di scena. C’è chi se ne va nella rabbia, chi in silenzio. Chi si annuncia con garbo e chi invece non se ne vorrebbe andare mai.
Io penso che arrivato al capolinea, quando finalmente sarò pronto per spogliarmi di questa vita scomoda che mi sta sempre stretta – soprattutto il cavallo che ogni tanto mi schiaccio una palla e tiro giù un santo a caso – sarò pronto a dare sfogo a quello che è rimasto di me.
E allora me la vedo, laggiù, la bara. Semplice, senza fronzoli che non ne vale la pena spendere tutti quei soldi. Me le vedo, le faccio rigate dal pianto di coccodrillo. Quelli che soffriranno veramente li riconoscerete perché non piangeranno. Coveranno tutto dentro, come faccio io. Terranno gli occhi su di me senza voler incrociare quelli degli altri. Mi faranno entrare in una chiesa – rischiando di farla crollare – e il prete dirà tante cose carine su di me, lui che mi ha conosciuto solo da morto. Chissà quanto può raccontarti un cadavere, padre.
Poi arriverà la benedizione e lì finalmente partirà lo scherzo finale. L’ultima burla di questa buffonata che chiamiamo vita. Si aprirà una crepa sul pavimento, la mia salma verrà inghiottita e subito dopo riemergerà, sorretta da quattro gorilla in smoking. Getti di fumo riempiranno le navate e la gente comincerà ad tossire. I vecchi stireranno le zampe e gli altri assisteranno alla mia gloria personale. Uomini e donne nude correranno intorno al feretro urlando frasi sconnesse. Partirà l’orgia del secolo donne con uomini donne con donne uomini con uomini e tutti si strapperanno le vesti perché capiranno che tutte le fatiche di una vita avranno il suono e l’odore della scorreggia di un cane quando ce ne andremo. Fontane di luce di tutti i colori bucheranno il soffitto e il cielo sarà di tutti i colori possibili. Non sarà un tenero arcobaleno ma una serie di orgasmi di vernice che schizzeranno come geyser strafatti di crack.
Poi arriveranno le cannonate. Un esercito infinito di bocche da fuoco annunceranno che quel coglione di Mister F ha tirato le cuoia e la vita passa via come un sorso di birra calda che lo sputi per terra e getti la bottiglia nella campana del vetro. Non perché vuoi fare la raccolta differenziata ma perché ti piace il rumore del vetro che va in frantumi. Accumuleremo vetro su vetro e tutto andrà in frantumi quando la stupida rincorsa della vita si schianterà contro un muro con sopra scritto GAME OVER – GRAZIE PER AVER GIOCATO.
I cannoni saranno sempre più veloci e violenti e vi saluterò con un tripudio di peti e polvere da sparo. Il cielo verrà oscurato dal fumo scintillante di mille colori e le stelle guarderanno con sdegno orde di esseri umani nudi e ubriachi che urleranno il nome degli dei pagani per avere una benedizione falsa come una banconota da ventisette euro.
La chiesta, il sagrato, il quartiere, la città salteranno in aria e mentre i leoni faranno sesso con gli agnelli, l’eco della mia risata tuonerà tra le macchine in coda, le file alla posta, le proteste degli onesti e le pretese dei figli di puttana.
L’ultima fiammata dei cannoni brucerà il velo dell’ipocrisia e tutto si rivelerà per quello che è: una ridicola messa in scena. Dove spetterà al defunto la battuta finale.
CI VEDIAMO DI LA’, TESTE DI CAZZO.

Mister F